Ho sempre amato la notte. Non solo vissuta, ma respirata, abitata. C’è qualcosa di profondamente umano nel buio, qualcosa che sfugge al controllo del giorno. La notte è il rifugio di chi non vuole essere visto, di chi non vuole sottostare al ritmo imposto dalla luce. Nella notte ci si può perdere, si può rallentare, smettere di correre.








Le città, sono ormai, diventate enormi alveari, perfetti nella loro geometria produttiva. Ogni corpo è un ingranaggio, ogni passo una cadenza prestabilita, ogni respiro sincronizzato con il grande meccanismo della società. Chi va fuori tempo non è solo diverso, ma è un errore. E l’errore va corretto, eliminato, sostituito. Perché rallentare significa inceppare la macchina, disturbare il flusso, mettere in discussione l’ordine stesso delle cose.
E allora la notte diventa l’ultimo spazio di libertà. Un luogo dove il ritmo frenetico del giorno non arriva, dove si può esistere senza dover necessariamente funzionare.
E allora la notte diventa l’ultimo spazio di libertà. Un luogo dove il ritmo frenetico del giorno non arriva, dove si può esistere senza dover necessariamente funzionare.
Ho sempre avuto un’attrazione per ciò che accade ai margini. Per quello che sfugge alla regola, che vibra in silenzio quando il mondo si distrae. Così è nato questo lavoro: non come reportage, non come serie fotografica nel senso classico, ma come ricerca. Come tentativo di ascoltare quello che di solito viene coperto dal rumore del giorno.
Tutto è partito da un’intuizione semplice: la notte cambia tutto. I volti, le strade, i pensieri. Cambia il modo in cui guardiamo e, soprattutto, il modo in cui veniamo guardati. La notte ha un suo linguaggio, fatto di ombre, silenzi, attese. E fotografarla è stato, per me, un modo per restituire valore a ciò che di solito passa inosservato.
Non ho pianificato nulla in maniera rigida. Ho scelto di camminare senza meta, in ascolto. Il metodo è stato l’erranza, il dubbio, la sosta. Ho lasciato che fosse il buio a guidarmi, che fossero i corpi solitari, le luci fioche dei lampioni, le saracinesche abbassate, i passanti distratti, a dettare il ritmo.
Spesso uscivo da solo, con la macchina fotografica nascosta sotto il giubbotto. Senza fretta. Aspettavo che qualcosa mi parlasse. A volte era un dettaglio – un’ombra proiettata su un muro, una vetrina illuminata in mezzo al nulla, un ragazzo che fumava da solo sotto un ponte. Altre volte era solo la sensazione che “qualcosa” stesse accadendo, anche se invisibile. E allora scattavo.
Ho scelto tempi lunghi, aperture ampie. Ho accettato il rumore, l’imperfezione, il mosso. Perché volevo che l’immagine restituisse quella stessa tensione sospesa, quella fragilità che percepivo camminando. Non cercavo estetica, ma verità. Una verità emotiva, personale. Uno sguardo.
Quello che mi interessava era dare forma al “fuori tempo”. A tutto ciò che di notte si muove al rallentatore, si nasconde, si protegge. Volevo raccontare la notte non come “assenza di luce”, ma come presenza di un altro ordine. Di un altro modo di stare al mondo.
Questo studio è ancora aperto. Non credo che si concluderà mai davvero. Perché la notte è infinita, e ogni volta che torno a camminare tra le sue pieghe, trovo qualcosa di nuovo. O, forse, qualcosa di me.