Ho sempre amato la notte. Non solo vissuta, ma respirata, abitata. C’è qualcosa di profondamente umano nel buio, qualcosa che sfugge al controllo del giorno. La notte è il rifugio di chi non vuole essere visto, di chi non vuole sottostare al ritmo imposto dalla luce. Nella notte ci si può perdere, si può rallentare, smettere di correre.












Le città, sono ormai, diventate enormi alveari, perfetti nella loro geometria produttiva. Ogni corpo è un ingranaggio, ogni passo una cadenza prestabilita, ogni respiro sincronizzato con il grande meccanismo della società. Chi va fuori tempo non è solo diverso, ma è un errore. E l’errore va corretto, eliminato, sostituito. Perché rallentare significa inceppare la macchina, disturbare il flusso, mettere in discussione l’ordine stesso delle cose.
E allora la notte diventa l’ultimo spazio di libertà. Un luogo dove il ritmo frenetico del giorno non arriva, dove si può esistere senza dover necessariamente funzionare.
E allora la notte diventa l’ultimo spazio di libertà. Un luogo dove il ritmo frenetico del giorno non arriva, dove si può esistere senza dover necessariamente funzionare.
Ho sempre avuto un’attrazione per ciò che accade ai margini. Per quello che sfugge alla regola, che vibra in silenzio quando il mondo si distrae. Così è nato questo lavoro: non come reportage, non come serie fotografica nel senso classico, ma come ricerca. Come tentativo di ascoltare quello che di solito viene coperto dal rumore del giorno.
Questo studio è ancora aperto. Non credo che si concluderà mai davvero. Perché la notte è infinita, e ogni volta che torno a camminare tra le sue pieghe, trovo qualcosa di nuovo. O, forse, qualcosa di me.